Appena ieri ho detto che c’e’ poca Gamificazione nel nonprofit. E stamattina mi scontro con questo video:
Mica male Amnesty!
Sempre di piu’ nel circolo degli addetti al marketing di Londra, dove vivo e lavoro, si parla di Gamification.
Sempre di piu’ si vedono esempi di Gamificazione nel mondo dei grandi marchi, i quali tentano di interagire i propri pubblici in modi sempre piu’ innovativi, attraverso la creazione di app e l’interazione con i social media. E’ un ambito decisamente rischioso e costoso, ma che in un certo senso funziona: attraverso la Gamificazione e l’interazione i marchi riescono ad entrare nelle vite delle persone e raccontare storie.
Stamattina, facendo i miei giri per i sotterranei di Londra, ho notato che la Gamificazione sta entrando anche nella pubblicita’ tradizionale. Elementi da ‘Settimana Enigmistica’ diventano centrali nella rappresentazione del marchio, e l’interazione diventa una possibilita’ concreta anche attraverso un semplice manifesto pubblicitario:
1) Pubblicita’ di BT Sport, una compagnia di telecomunicazioni. Dice solo “NameThatTeam”, ovvero dai un nome alle squadre di calcio rappresentate nel manifesto.
2) Campagna celebrativa dei cinquant’anni di pubblicita’ nella metro. (Gli inglesi, se possono, celebrano davvero qualsiasi cosa!) Anche qui “Name the brand”, ovvero dai un nome allo slogan famoso.
Il Nonprofit ancora fa fatica ad entrare nel mondo della Gamificazione. C’entra probabilmente il fatto che e’ difficile giustificare la spesa. Ma anche il fatto che i temi del nonprofit sono temi molto seri, ed e’ difficile prenderli con leggerezza ed ironia.
Nonostante cio’ alcune nonprofit si sono date da fare negli ultimi anni. L’ultimo esempio viene da Cancer Research UK. Li cito spesso, ma perche’ nonostante siano un’istituzione colossale, sono anche in grado di innovare, ed hanno ovviamente anche i mezzi per farlo.
CRUK ha appena lanciato nel mercatoil sito Click To Cure. I visitatori sono incoraggiati a partecipare attivamente alla ricerca sul cancro, e ad analizzare slides di cellule cancerogene.
Famosissimo e’ anche l’esempio di iHobo, una App che rende il tuo telefonino un piccolo tamagotchi nel quale vive un senza-tetto. Bisogna curarlo, dargli da mangiare, dargli da dormire e cosi’ via.
In entrambi i casi, e’ ovvio che si tratta di un esercizio di branding, piu’ che di fundraising, e che la parola d’ordine e’ engagement, coinvolgimento.
Ma e’ certo che si puo’ fare di piu’ con la Gamificazione. Nel contesto italiano, la prima applicazione che mi viene in mente sarebbe la campagna 5xmille, che non e’ esattamente una raccolta fondi trazionale, e che si presterebbe volentieri alle logiche della Gamificazione.
Ma passo la palla ai miei colleghi fundraiser italiani per sviluppare questi concetti…
I fundraiser d’Italia hanno lanciato una mini-campagna su Facebook: “Io non Lavoro a Percentuale”. E l’Assif (Associazione Italiana Fundraiser) sta lavorando alla campagna Percentuale Free. Bravi!
Io come sempre osservo dall’estero, dove il pagamento a percentuale non e’ neanche considerato, in quanto non etico.
Se lavori per una nonprofit e stai leggendo questo articolo perche’ vorresti pagare un fundraiser a percentuale, o stai considerando di accettare un lavoro a percentuale, ti prego di considerare una strategia alternativa!
Pagare a percentuale e’ umiliante per il fundraiser e per l’intera professione. Poi e’ considerata una scelta non etica dai fundraiser di tutto il mondo. Elena Zanella spiega molto bene sul suo blog:
PROPORRE un lavoro a percentuale nel nonprofit significa infrangere il primo tabù universalmente riconosciuto non solo dalle associazioni di categoria ma dall’etica stessa della professione e del settore in generale: ovvero, significa anteporre gli obiettivi di business a quelli di tutela del valore della persona. Di più, è un approccio altro rispetto allo spirito imprenditoriale perché manca di una delle sue fondamenta: la propensione al rischio. L’assunzione di parte del rischio è maturità. Diversamente, chiamiamolo pure opportunismo. Ma se l’opportunismo è tollerabile nel profit, diventa ipocrisia nel nonprofit. Lo specchietto per le allodole è il guadagno alto a fronte di un impegno di tempo da autogestire. La frustrazione per il raggiungimento degli obiettivi è invece la spada di Damocle sull’aorta del nonprofit.
In soldoni, con il lavoro a percentuale l’ONP non si assume alcun rischio e il fundraiser e’ solo a cercare di pagarsi il salario. Per questo c’e’ la possibilita’ che sia obbligato a dimenticare la relazione con il donatore (che e’ cio’ che garantisce la sostenibilita’ a lungo termine dell’organizzazione) per concentrarsi su attivita’ che fanno soldi SUBITO, ma non sono necessariamente lungimiranti.
Se il fundraiser invece e’ assunto, per lo meno con un contratto a termine, e’ parte integrante di un’organizzazione che crede nel fundraising. Il fundraiser pianifica la raccolta fondi, e il resto dell’organizzazione lo appoggia. Questo e’ l’unico modo per far funzionare il fundraising nel nonprofit.
Quindi se stai considerando di proporre o accettare un lavoro a percentuale, ti prego, riconsidera! Capisco che il clima sia difficile, ma guardando indietro ti renderai conto di aver fatto la scelta giusta.
Vuoi saperne di piu’?
Valerio Melandri sul Fundraising a Percentuale
Direi proprio di si’:
Anthony Nolan – Make Some Noise about Blood Cancer
Questa campagna allontana l’immaginario talvolta deprimente legato alle organizzazioni nonprofit che si occupano di salute, a favore di una stategia mirata all’intrattenimento.
Anthony Nolan e’ un’organizzazione che si occupa di “Cancro al Sangue”, cioe’ di leucemia, e sa come catturare l’attenzione del suo pubblico target, ovvero i giovani maschi.
Il video ha tutte le caratteristiche di un video perfetto:
Anche se e’ chiaramente un esercizio di brand e comunicazione (non fundraising), e’ la prova che un tema delicato puo’ essere presentato in un modo interessante. Ed e’ per questo che e’ diventato virale
Si chiama “Enough Food For Everyone IF...”, o semplicemente “IF Campaign“, ed e’ una coalizione di nonprofit inglesi che si sono unite per combattere la malnutrizione. E’ partita oggi, ed e’ molto ambiziosa.
Da notare, le persone in UK sono 60milioni, quindi l’obbiettivo di raggiungerne 20milioni e’ davvero temerario.
Interessante da notare anche che esiste un sito a sostegno di questa campagna, ma che allo stesso tempo ogni charity ha costruito una pagina web ad hoc. La ragione? Sicuramente per mantenere il controllo sui dati dei propri sostenitori. Posso solo immaginare lo sforzo diplomatico che sta dietro una campagna come questa!
Oltre 100 organizzazioni lavoreranno e raccoglieranno firme a favore di questa campagna.
Ecco alcune delle pagine web: Oxfam, Save the Children, Cafod, Christian Aid, Islamic Relief, Tearfund.
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E’ davvero bello vedere il nonprofit che lavora insieme.
Ovviamente questa non e’ una campagna di fundraising, ma di “campaigning”, ma come dimostra Greenpeace, campaigning e fundraising vanno davvero mano nella mano. Sicuramente cominceremo a vederne sempre di piu’ in futuro di queste attivita’.
Oxfam Irlanda – Gli animali degli Spacchettati: mi piace perche’ e’ semplice, ma fa ridere, prestandosi bene a diventare virale.
Save the Children – Tomorrow: Mi piace perche’ e’ fatto ad opera d’arte, e dice molto senza parole.
John Lewis – Il viaggio: John Lewis e’ una nonprofit (bensi’ un centro commerciale inglese) ma guardando questo video potrebbe benissimo esserlo.
Poiche’ e’ visto come uno spreco di denaro le nonprofit dedicano poco tempo a sviluppare il proprio marchio. Ma puo’ essere un errore.
C’e’ tantissima discussione intorno allo sviluppo del brand per grandi organizzazioni nonprofit. Si veda ad esempio il caso di Cancer Research UK o di Amnesty International. O il lungo articolo del ‘Stanford Social Innovation Review’. Ma tra le organizzazioni piu’ piccole, la mancanza di tempo, di denaro e di consapevolezza rimane un’ostacolo insuperabile.
Cosa costituisce il brand di un’organizzazione?
Il brand, o marchio, e’ l’esperienza che le persone hanno di un’organizzazione, cio’ che ricorda loro dell’incontro con quell’organizzazione – non solo il logo, i colori e l’aspetto visivo quindi, ma l’intero vissuto e le emozioni suscitate in quel momento. Ovviamente e’ importante per il fundraising, per creare fedelta’, riconoscibilita’ e una chiara idea di quale sia la buona causa; ma anche per comunicare sostenibilita’ e professionalita’, e quindi relazioni durature con partner, istituzioni e aziende.
Quello che molti non considerano pero’ e’ che, per quanto riguarda il brand, le piccole nonprofit qui hanno un vantaggio: l’autenticita’.
Le piccole organizzazioni infatti gia’ sono in possesso delle storie, delle relazioni, delle persone con cui hanno lavorato negli anni.
Le grandi organizzazioni, devono invece appropriarsene: molto spesso infatti le grandi nonprofit presentano le storie dei loro partner sul campo, quelli che loro guidano e finanziano, presentandole come proprie. Le grandi organizzazioni passano un sacco di tempo (e quindi denaro) per avere accesso a quelle storie, per poterle raccontare ai propri sostenitori.
E’ quindi la mancanza di tempo e denaro che convince le piccole organizzazioni a tralasciare il marchio, o semplicemente e’ una profonda mancanza consapevolezza?
Una delle top 3 organizzazioni inglesi, Cancer Research UK, ha appena annunciato il proprio rebranding, alla modica cifra di 680mila sterline (circa 900mila euro). La ragione? Dare nuova vita al fundraising, con un tono di voce piu’ caldo e accogliente. Puro genio e visione, o vero e proprio suicidio?
Un’interessantissimo articolo del blog Fundraising Detective analizza i due punti di vista e prova a trarre una conclusione, definendo quesa decisione “uno dei piu’ grandi rischi che Cancer Research UK abbia mai preso”. Una lettura consigliata!
Per chi avesse ancora dubbi, e’ appena uscito uno studio di HighTable sull’utilizzo degli smartphone per il marketing, che ci dice che la spesa pubblicitaria via Mobile salira’ a $5,4 miliardi nel 2015. Che la sfida abbia inizio!
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